Il giornalismo e la nuova realtà digitale(apriamo il dibattito all’interno della categoria)

L’irruzione sul mercato della comunicazione di dispositivi che riescono a rendere di uso quotidiano la potenza dell’intelligenza artificiale, o comunque un’attività di alta elaborazione di dati e contenuti, sta ulteriormente spostando il confine fra il libero esercizio della nostra professione e un’omologazione tecnologica pericolosa per la democrazia prima ancora che per la categoria.
Parliamo di quei dispositivi tipo Chat GPT di Microsoft, ma anche del nuovissimo Bard di Google, che dovrebbe essere già in condizione di agire autonomamente in rete. Dispositivi che dialogano in linguaggio naturale, elaborando contenuti su temi indicati.
L’uso di tali tecnologie viene certamente incontro a entrambe le spinte imposte dalla svolta tecnologica: la velocità di pubblicazione e la differenziazione delle notizie. Spinte che hanno determinato da un lato l’indebolimento delle figure di scrittura, con il ridimensionamento nel numero e nella portata delle attività di inviati e corrispondenti, che sono sempre più ritenuti dalle aziende costi insopportabili. Dall’altro la personalizzazione delle notizie, che ha come premessa necessaria la creazione di un’abbondante offerta di informazione prodotta da un ruminamento continuo in rete di qualsiasi tipo di contenuti, in formato testuale iconografico o video, che a sua volta rischia di azzerare il valore di scambio del bene news.
La novità introdotta dall’intelligenza artificiale riguarda sia la base dati di riferimento che l’opzione di adattamento e adeguamento di queste intelligenze da parte degli utenti. Sino a che punto, però, la robotizzazione può sostituire il lavoro del giornalista?
Alla possibilità di reperire un numero di fonti irraggiungibili da mente umana, quantomeno nei tempi che oggi il sistema dell’informazione richiede, e di ottenere un semi-lavorato che provveda a “riempire gli spazi bianchi” tra le informazioni raccolte non deve fare da contraltare la rinuncia alla verifica delle fonti che la macchina ha collezionato. Anche considerando che “l’intelligenza della rete” non è addestrata a contare sulle fonti maggiormente attendibili, ma su quelle con maggior potenziale di circolazione, e la differenza è sostanziale.
La capacità con la quale l’intelligenza artificiale apprende gusti e opinioni di chi la usa, poi, non deve risolversi in un processo di radicalizzazione del già noto processo di autoreferenzialità che interessa il lavoro giornalistico, e che si sostanzia nell’uso di cliché narrativi consolidati e in linea con gli stereotipi diffusi presso la propria readership. A essere in ballo è la capacità del giornalismo, al netto di inevitabili semplificazioni e possibili distorsioni, di allargare lo sguardo, proprio e del proprio pubblico, sul mondo.
La categoria è dunque chiamata, nell’attuale scenario socio-tecnologico, a dare un segnale di consapevolezza e di valutazione critica rispetto a quanto sta accadendo, promuovendo una riflessione sulle modalità e i contenuti che devono aprire una grande stagione di negoziazione dei processi tecnologici, come è stata quella che accompagnò il passaggio dal caldo al freddo nei giornali alla fine degli anni ‘70.
Come Fondazione Murialdi riteniamo di poter concorrere allo sforzo in atto nel sistema del giornalismo segnalando la necessità di una nuova e più puntuale riflessione dell’Ordine e del sindacato su questi aspetti della stretta attualità.
In particolare, l’addestramento, la procedura che identifica le identità culturali e che rende il sistema più intimo con l’utente, è il terreno su cui intervenire oggi, con forza e determinazione. Bisogna rendere socialmente trasparente questa funzione rivendicandone come giornalisti la condivisione, e non diventando collaudatori gratuiti e subalterni. Non dobbiamo chiedere addestramento aziendale ma formazione culturale.
Microsoft come Google sta ancora definendone le caratteristiche, come la geometria dei server e la logica del cloud. Dovremmo trovare il modo di porre a questi proprietari e agli editori, che hanno deciso di acquisirne le tecnologie, le canoniche cinque domande fondamentali del nostro mestiere: dove, come, quando, chi e perché ha deciso di collocare i server in quella soluzione e con quelle dotazioni etiche? Dove saranno collocati i server che gestiscono l’attività in Italia di questi servizi digitali? Come pensano di organizzare le infrastrutture? Quando realizzano le release pubbliche? E perché sceglieranno la formula commerciale che verrà adottata? Infine, chi potrà controllare dati e avere la possibilità di riprogrammare i sistemi in sede locale?
La categoria deve chiedere, anche a livello europeo, un confronto alle imprese che gestiscono queste risorse, per avere chiaro come e cosa stanno preparando e come condividerlo se ci convince. Questo, in particolare, considerando la prossima verticalizzazione dell’esperienza di Chat GPT, ossia di specializzazione prima nel settore news, poi negli specifici generi giornalistici, che è un passo inevitabile e drammaticamente vicino.
In questa ottica si dovrebbero promuovere gli stati generali delle attività e professioni intermedie che diano visibilità e forza ad una strategia di riqualificazione del sistema paese nella digitalizzazione dei servizi e delle competenze.
Alla luce di questa mediamorfosi appare, infine, necessario riflettere sugli aspetti che riguardano l’inquadramento professionale e la capacità del giornalismo di accompagnare il cambiamento tecnologico. Riflessioni che richiedono una necessaria e non più procrastinabile revisione della normativa del contratto nazionale di lavoro, sia per quanto riguarda la ridefinizione delle qualifiche e delle mansioni (art. 11) sia per quanto riguarda l’aggiornamento culturale e professionale (art.45) sia per quanto riguarda le procedure e le tutele relative all’introduzione di supporti tecnologici basati su sistemi di intelligenza artificiale (art.42), sia per quanto riguarda i poteri di intervento dei comitati di redazione (art.34) che dei singoli redattori (art.9).

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